Non potremmo certo chiamare fotografie, quelle realizzate da Carlo Marrale, bensì opere fotografiche, dove il fine non consiste nell'abilità dell'uso della macchina, destinata a fissare la realtà nella sua apparenza, bensì si eleva a pura arte, capace di evocare realtà profonde e misteriose. Di fatto egli usa il mezzo fotografico come il musicista lo strumento e il pittore il pennello. Forse persino con un po' più di maestrìa, dal momento che l'effetto ottenuto è tale da trascendere il mezzo con cui è stato realizzato, rendendolo non facilmente individuabile.
Le sue opere, infatti, parlano il linguaggio simbolico dei colori e quello sublime della musica, che non rappresenta né definisce, ma apre mondi all'emozione, all'intuizione e all'interpretazione personali: è l'espressione artistica della non-forma, che non solo comunica senza parole o immagini definite, ma soprattutto porta alla luce il mondo interiore di ciascuno attraverso vibrazioni cromatiche e suggestioni.
La lettura dell'opera si trasforma così in auto rivelazione dell'osservatore stesso, che vede fuori ciò che in realtà ha dentro. Poiché i colori (sono il linguaggio emozionale dell'inconscio), come li definì Max Luscher, cioè sono l'espressione naturale ed istintiva degli stati d'animo di ogni essere umano ( a ciascuna emozione corrisponde un colore), è proprio questo livello della psiche che viene raggiunto dal messaggio cromatico e da qui affiora la risposta, non facilmente spiegabile in termini razionali, che ci fa dire "mi piace!".
L'arte di Marrale sceglie il particolare e lo ingrandisce, al punto tale che esso si trasfigura e si muta in altro: il microcosmo diviene macrocosmo, l'insignificante acquista significato e il nulla si rivela tutto.
Così una molecola di ruggine o di vernice si trasforma in vastità di suggestioni emotive e interpretative, in cui aleggia (L'Armonia delle cose nascoste), nascoste non fuori, ma dentro di noi.