Comune di Napoli - Teatro Mercadante - La festa di Spiro Scimone
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Teatro Mercadante - Sala Ridotto - La festa di Spiro Scimone

dal 10 al 20 gennaio 2008

(Premio Candoni Arta Terme per la nuova drammaturgia XXVII ed.)

con Francesco Sframeli, Nicola Rignanese, Spiro Scimone
regia Gianfelice Imparato
scene Sergio Tramonti
musiche Patrizio Trampetti

una produzione Compagnia Scimone Sframeli
in collaborazione con Fondazione Orestiadi Gibellina

Interno di un nucleo familiare.
Padre, Madre, Figlio.
Un giorno particolare. L'anniversario di matrimonio.
"La Festa".
Momento di scontro su un quotidiano realmente vissuto.
Dialogo con toni da interrogatorio.
Padre, Madre, Figlio tentano di sfuggire una propria colpa..
Cercano di smascherare l'altro in un gioco crudele.
Sospeso. Mai dichiarato.
Il gioco si consuma nel silenzio.

La festa è il primo testo scritto da Scimone in lingua italiana, dopo i due precedenti in dialetto messinese, Nunzio e Bar. Ma è un italiano molto meridionale, il suo, nella costruzione della frase come nella cadenza impressa dai tre interpreti. Sono dialoghi brevissimi, fatti di battute di poche parole, spesso una sola. Con un uso molto musicale, quasi jazzistico, della frase e della parola, su un ritmo sincopato che mette in evidenza le frequenti ripetizioni e variazioni di un medesimo tema.

Ma ripetizione e variazione portano anche a esplorare tutte le possibilità offerte dalle parole, la loro necessità. Sono le armi affilate da una lunga esperienza con cui si confrontano i tre personaggi in scena, in un continuo rinfacciarsi episodi distorti e un passato forse inventato. Le parole ingannano e sono usate per ingannare, soprattutto se stessi, perché a forza di ripeterle, quelle battute tormentosamente ossessive, ci si può convincere che siano vere. E l'introduzione di un terzo personaggio, rispetto ai lavori precedenti rigorosamente a due, dove però il terzo era una presenza invisibile ma incombente, offre a Scimone uno strumento in più per modulare le sue variazioni, giacché la parola può assumere un valore diverso se si rispecchia in un diverso interlocutore.

Sono un padre, una madre e un figlio, rinchiusi nello spazio geometrico di una astratta cucina disegnata da Sergio Tramonti, il chiuso contenitore di quel microcosmo familiare, un cubo di bianco grigiore, sporco, delimitato da due pareti in cui si aprono strette aperture con gli sportellini da serrare. Ma il pavimento è inclinato e le pareti pendono sghembe, come se un sisma avesse scosso pericolosamente quel luogo che cerca nonostante tutto di difendere la propria instabilità con le sbarre alle porte. Ogni naturalismo è escluso dalla regia di Gianfelice Imparato. Ogni malintesa psicologia. Non solo per la scelta di tre interpreti maschili ed evidentemente coetanei, privi di trucco, dove anche un particolare dell'abito serve piuttosto a individuare un carattere (con l'autore che una vestaglietta trasforma nella madre e il padre Francesco Sframeli, c'è qui Nicola Rignanese in veste di figlio). Piatti e tazzine sono sostituiti con colorati cestini di plastica. Un cappellino rosso, il regalo della festa, è l'unico tocco di colore in quel cercato grigiore. Si guardano di sbieco. Dialogano per domande e risposte. Com'è il tempo? Vuoi il latte? Hai messo lo zucchero? E' calda l'acqua? Come formule di un rito che si ripete uguale da un lungo tempo. Banalmente uguale. La festa del titolo celebra un anniversario, i trent'anni di matrimonio della coppia. E fondamentale è l'aspetto del gioco, cioè proprio del recitare. Ciascuno dei tre personaggi recita infatti la propria parte. La madre assillante che accentua il suo ruolo di vittima. Il padre che fa la voce grossa per mascherare la propria debolezza e dipendenza. Il figlio protervo, che se ne sta accucciato a muso duro, è diventato lui il vero padrone di casa, anche perché è lui che mette i soldi, oscuramente guadagnati.

Il gioco è teso, crudele, apparentemente devastante. Con una continua nota di comicità. La madre rinfaccia. Il padre fa il gesto di uno schiaffo che è incapace di dare. E il figlio, cosa fa il figlio? Il figlio non fa niente, se ne sta accucciato in silenzio e quando è stanco di domande esce fuori. Ma c'è un limite nel gioco oltre cui non può andare. La necessità di non arrivare alla rottura, perché il giorno dopo si possa riprendere da capo, con le stesse parole. Lo stesso rito. La crudeltà sembra così rivolta piuttosto allo spettatore che è costretto a riflettersi nello specchio deformante che ha di fronte. Inquietante proprio perché obbliga a interrogarsi su quale sia la forma vera rispecchiata da questo inesorabile rito familiare. (Gianni Manzella)

calendario delle rappresentazioni

10, 13, 14, 15, 17, 20 gennaio ore 21.00
11, 12, 18, 19 gennaio ore 18.00

 
 

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